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Crimes of the future

Tempo di lettura: 4 minuti

Non compie un salto in avanti David Cronenberg, piuttosto tira le fila della sua arte, dell’arte in genere, del cinema e ci consegna una pellicola che la dice lunga sui nuovi orizzonti dell’esistenza votata alla forma

La riscrittura della scienza

“Crimes of the future”, presentato a Cannes e uscito nelle sale italiane il 25 agosto, svolge metodicamente, alla stregua di un trattato, la materia che il regista di Toronto ha esplorato lungo tutto il suo itinerario artistico: il corpo.

Pioniere di quel genere cinematografico che sbrigativamente si è chiamato body horror, Cronenberg si sbarazza stavolta dell’umano sussiego nei confronti della carne, delle implicazioni psicologiche delle mutazioni e prova a sacrificare le viscere all’arte, il dentro, insomma, all’impalpabilità del fuori meno contaminato dalla scienza.

Ché la scienza, qui, è riscritta da soggetti non ai margini della società, piuttosto oltre quel sistema strutturato che ha evidentemente fallito nel tentativo di assicurare il benessere alla popolazione mondiale.

“Crimes of the future”, il cui titolo riconvoca la pellicola del 1970 col dottor Adrian Tripod alle prese con un mondo popolato da soli uomini a causa d’una epidemia, sospende letteralmente il giudizio sulla manipolazione del corpo e persino lo ammanta di fascino inusitato quando si presta alla nobile causa del superamento dei limiti della scienza è la creazione del bello sul quale Baumgarten iniziò a ragione nel XVIII secolo.

Cronenberg mette nuovamente d’accordo armonia metafisica e piacere sensibile, inganno e destrezza costruttiva.

Il corpo assertivo all’arte

Nel film che ha diviso gli spettatori a Cannes, dove alcuni hanno abbandonato la sala e altri sono rimasti incantati dalla pellicola, ci si riconcilia con la materia, o meglio non le si oppone resistenza: il corpo volontariamente produce nuovi organi malati e li espelle come fossero pezzi da museo.

Persino la chirurgia diventa allora un rito. L’uomo, privato del dolore e della facoltà dunque di percepire in anticipo il disastro, si abbandona a una nuova forma di esistenza dentro i perimetri della quale cambia tutto, anche l’amore, anche il sesso.

Il protagonista Saul Tenser, interpretato da uno straordinario Viggo Mortensen, consegna sé stesso, visceralmente, all’arte. La performance durante la quale l’assistente ex chirurga Caprice (Léa Seydoux) asporta chirurgicamente nuovi organi guasti dal corpo di Saul recapita allo sguardo del pubblico la visione squisitamente erotica d’una profanazione artistica. Come se il sesso e l’arte, eluso il sentiero scomodo del dolore, si incontrassero a metà strada. La linea di confine che li divide è del resto alquanto sottile. L’esperienza, tra incisioni sulla pelle e squarci telecomandati, è altamente pervasiva e procura un vivo godimento.

Non v’è efferatezza, non v’è accanimento; solo il più naturale adeguamento alle trasformazioni di quel corpo immortale che richiama non già all’uomo, ma al cinema, all’arte, a tutto ciò che per diritto dovrebbe accedere a una dimensione eterna.

La danza di un individuo cui sono state sottratte la parola e la vista, cosparso di orecchie che solo sulla carta amplificano la sua capacità uditiva, abbatte le barriere dell’anatomia, dello sforzo scientifico alla preservazione sensoriale. Quello di Cronenberg e del pubblico che gli è più affezionato è davvero un nuovo modo di percepire la realtà.

La nuova realtà

Attorno a noi tutto è cambiato e il regista canadese ce l’aveva anticipato servendoci su un piatto d’argento quella direzione che l’umanità poi ha davvero preso. “Crimes of the future” diventa allora la resa dei conti. Ora che siamo la nave rovesciata, ora che ci nutriamo di plastica, ora che siamo fluidi e, in quanto tali, oscilliamo tra la libertà e l’evanescenza di cui abbiamo paura.

E quale sia dunque l’estrema frontiera della felicità, quale il luogo in cui sentirsi salvi Cronenberg ce lo dice senza mezzi termini. Quel luogo è l’arte, declinato nelle molteplici forme di cui il cinema costituisce, o dovrebbe costituire, il profilo più agibile.

Le macchine, come quelle che coadiuvano i gesti quotidiani di Saul o il Serk per le autopsie, spalleggiano, in questo inedito universo, la ricerca spasmodica e per certi versi selvaggia del bello. È un po’ come servirsi del progresso per tornare agli arbori dell’umanità.

Cronenberg passa da sempre a setaccio la tecnologia e adesso pare sia giunto il momento di verificare quanto veri fossero i presagi sparsi nel suo cinema e quanto i riverberi delle macchine sofisticate siano oggi realmente percepiti dall’uomo.

Possibile la rinascita del genere umano?

Di sbieco, senza puntare il dito contro nessuno, Cronenberg affronta persino il tema dell’inquinamento. Tuttavia non ci si rende conto, come risucchiati dal vortice narrativo e dalla fotografia possente di Douglas Koch, quanto la contaminazione ambientale sia un irreparabile danno e quanto piuttosto un’occasione, benché opaca, di rinascita.

Tutto è relativo nell’universo preveggente del regista canadese. E tappe alle quali giunge Saul Tenser, fiancheggiato dai plasticofagi sull’evoluzione, sono ancora tetre, incerte. Non v’è quasi il tempo di defatigare. Ma quando l’uomo, che mal deglutisce sulla sua sedia di ossa, chiede a Caprice la barra di plastica e al primo morso si abbandona a quel sorriso estatico che richiama il fotogramma di Pascal Laugier sul volto di Anna dopo il martirio allora tu pensi – e speri – che un nuovo orizzonte di felicità, in questo folle mondo di miseri mortali, magari sia ancora possibile.

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