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Danilo Rea - Foto di Roberto Messina
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Jazz, Musica

Danilo Rea, con la figlia Oona porta sul palco l’arte del jazz: «l’improvvisazione nella musica è un compromesso»

Tempo di lettura: 3 minuti

Danilo Rea trova nella dimensione del suo pianoforte il momento ideale per dare forma al proprio universo espressivo e al suo talento naturale per l’improvvisazione. Una passione tramandata anche alla figlia Oona, con cui il 30 aprile celebrerà sul palco la Giornata Internazionale del Jazz alla Casa del Jazz.

Come festeggerete per questa ricorrenza?

«Molti anni fa ho avuto l’onore inaugurare la prima Giornata Internazionale del Jazz con Enzo Pietropaoli e Jeff Ballard. Quest’anno festeggerò a Roma con mia figlia, che canterà e interpreterà Billie Holiday, insieme a Barbara Bovoli.
Pochi giorni fa siamo stati a Ravenna con Roberto Gatto e Beatrice Gatto, sua figlia. Un duo di due amici che hanno cominciato a suonare insieme all’età di 16 anni e che adesso tornano insieme accompagnati dalle proprie figlie.

Che emozione le fa cantare insieme a sua figlia per quest’occasione?

«Lavorare con i figli non è facile. Tutti quelli che sono i rapporti familiari li porti in musica e poi sul palco. È un percorso quasi psicanalitico. Non è facile, ma è una via che porta a nuove scoperte. L’importante è fidarsi l’uno dell’altro, che non ci sia diffidenza. Questo vale anche in musica. Bisogna suonare con persone di cui si ha una grande fiducia, sapendo che anche se sbagli l’altra persona ti seguirà».

Lei parla molto di jazz come improvvisazione. Cosa significa?

«L’improvvisazione nel jazz è tutto. Per un artista l’improvvisazione è la libertà assoluta, e si può improvvisare in tanti modi, è una specie di composizione estemporanea. L’importante è cercare sempre di emozionare, senza avere paura di sbagliare. Paradossalmente da un errore può nascere una nuova strada che ti porta ed esplorare nuovi sentieri.
Si tratta di un modo di fare musica che si è andata perdendo nel tempo. I grandi musicisti del passato, come Bach, erano dei grandi improvvisatori. Anche se non suonavano musica jazz. Ed è una lezione che andrebbe insegnata anche ai musicisti classici: trovare quell’equilibrio tra libertà e il rigore della partitura.
L’improvvisazione nella musica è un compromesso. Quando impari a improvvisare non te ne liberi più perché capisci che hai trovato la libertà espressiva».

Danilo, ha sempre saputo che il jazz sarebbe stata la sua strada?

«Ho cominciato a suonare a 16 anni, ma la mia fortuna è stata quella di entrare in Conservatorio dopo la maturità. Il mio percorso è partito dal progressive rock degli anni ’70, quindi sapevo già suonare e improvvisare, ascoltando grandi musicisti e band del passato come gli Yes e i Genesis. Poi ho scoperto il jazz e ho capito che dovevo imparare a improvvisare come loro.
A 18 anni con Roberto Gatto ed Enzo Pietropaoli avevamo già avuto l’occasione di suonare con Lee Konitz, uno dei più grandi sassofonisti contralto della storia dal jazz. Ci siamo buttati subito in pista».

A proposito del suo debutto, qual é il ricordo più caro legato a quegli anni?

«Il nostro battesimo del fuoco fu proprio insieme a Lee Konitz. Nel ’75 fummo chiamati da Pepito Pignatelli, un principe batterista che gestiva un piccolo club a Roma che si chiamava il Music Inn, e ci spedì con Konitz in Sicilia. Lui era un grande, improvvisava quasi totalmente nei suoi concerti. Ci incontrammo con lui solamente il pomeriggio, due ore prima di suonare. Dopo aver deciso una scaletta mi disse “Danilo, inizia con un piano solo, poi entro io e facciamo un duo”. L’idea mi atterriva, soprattutto con un artista così importante e complicato nella maniera di suonare, senza nessun sostegno ritmico di una batteria. Fu un’esperienza incredibile, musicalmente siamo cresciuti di 10 anni in una settimana».

E poi cos’è successo?

«Subito dopo prendemmo un aereo per Milano, dove c’era un altro grande club che si chiama il Capolinea. Con Enzo e Roberto accompagnammo un altro grande sassofonista, Steve Grossman. Lui veniva dalla scuola di Coltrane, aveva una tecnica perfetta. Prima del concerto cenammo insieme con Grossman, senza aver fatto nessuna prova, e mentre eravamo ancora a tavola ci scrisse sull’interno di una scatola di fiammiferi le armonie dei brani che avrebbe suonato sul palco. Impossibili da decifrare. Il concerto andò benissimo e riuscimmo a suonare seguendo l’improvvisazione del momento e soprattutto guidati dalla fiducia l’uno degli altri».

Quale augurio si fa per il Jazz?

«Il mio augurio è quello di riuscire a ad arrivare a più persone possibile ed è questo un po’ quello che ho detto negli anni in cui ho avuto l’occasione di insegnare musica jazz nei conservatori. È una musica che amo molto. E mi auguro che i giovani jazzisti siano in grado il più possibile di comunicare emozioni a chi li ascolta. È questo il segreto della musica».

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