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KATLA, IL NORDIC NOIR CHE SI MESCOLA ALLA FANTASCIENZA

Tempo di lettura: 4 minuti

Disponibile in otto episodi dal 17 giugno e già la serie islandese “Katla”, produzione originale Netflix, fa parlare di sé. 

“Katla” è un nordic noir che si mescola alla fantascienza, avvolgendo la cittadina di Vik nella quale è ambientato da una sottile nebbia di mistero. Non si sa davvero quanto pesino sull’atmosfera plumbea i segreti e quanto, più tangibilmente, la cenere e il fumo del vulcano da cui deriva il titolo della serie diretta da Baltasar Kormàkur. C’è a ogni modo qualcosa nell’aria di Vik, in quel crepuscolo incessante che preclude chiarore, decifrazione, speranza. 

Katla è realmente un grande vulcano sub-glaciale dell’Islanda. La gente, dopo l’ultima eruzione, ha evacuato la cittadina. Chi è rimasto fa quotidianamente i conti con la perdita, con tutto ciò che la lava e il ghiaccio hanno sepolto. Sono tutte vite a metà, monche di un familiare, di una parte di sé persa per sempre. Agli effluvi dell’eruzione ci si abitua, al dolore che deriva dalla perdita mai.

La prima scena di “Katla” coincide con il risveglio, dentro antri freddi e infernali, di una donna ricoperta di cenere. Si intervallano ghiaccio e lava, l’uno come ignaro della presenza dell’altra. La natura sa invalidare i contrasti. Non sempre ciò che si staglia innanzi agli occhi umani può essere decifrabile. 

Il vulcano è sotto l’attenzione degli scienziati, le sue attività sono costantemente monitorate. Qualcosa tuttavia può sfuggire. E qualcosa a Vik sfugge. Qui finisce la realtà e, dentro una coltre nera cui scampano solo gli occhi, comincia il mistero.

Gunhild (Aliette Opheim), e tutti gli individui riemersi da un passato che sembra essersi cristallizzato in fondo ai ghiacciai, sconvolgono le esistenze degli abitanti di Vik. Sono morti che ricompaiono senza alcuna spiegazione plausibile, sono contraffazioni di individui scampati all’ultima eruzione. Sono, secondo un’antica leggenda, changeling, sostituti degli originali umani. Quanto basta per mescolare folklore, religione e scienza.

Tuttavia il valore aggiunto della serie che avrebbe potuto entrare a pieno titolo nel novero delle sci-fi è il dramma individuale e collettivo che ne scaturisce. Ciascuno deve fare i conti con il proprio passato, deve smussare gli angoli aguzzi del sé più inservibile, deve elaborare il lutto per guardare finalmente in faccia la realtà, ora che rischia di rimanere appeso a illogici e ingannevoli abbagli.

C’è Grima (Guðrún Ýr Eyfjörð), alle prese con una sorella che stenta a riconoscere e un’altra sé che quotidianamente la spazza via, rubandole l’esistenza. C’è il geologo Darri (Björn Thors): un changeling per rimanere avvinghiato al ricordo del figlio che non c’è più e la lucidità, fredda come è freddo il paesaggio dell’Islanda, per levare la maschera al crudele duplicato e liberarsene azzerando l’emotività.

E sì, perché la sfera emotiva dei personaggi, minata dalle presenze inattese che affiorano negli otto episodi, rischierebbe di prendere il sopravvento sulla logica, sancendo letteralmente l’avvicendamento di originali e copie, se il cielo sotto il quale s’affaccendano gli uomini non possedesse i colori freddi della ragione. 

Qualcuno, mosso dall’illusione d’una vita migliore, tenta il colpo di mano. Sfrutta il cambio di guardia e mistifica il presente. Ma no, non è possibile. È come se la natura, così imponente sull’uomo, sussurrasse la strada da intraprendere per non sovvertire l’ordine regolare delle cose. 

Che la natura prenda e dia è un asserto inconfutabile. Le si potrebbe imputare, nel caso di “Katla”, di aver dato per mera perversione. E sarebbe una lettura troppo superficiale della realtà. 

Piuttosto nel magma incandescente d’Islanda, e dell’universo intero, non è sempre dato all’uomo il superamento del dolore. Ci si rivolge ai medici, agli psicologi, si ingurgitano pasticche per renderlo almeno più sopportabile, ma non si smette mai di tormentarsi. Forse perché al dolore non ci si assuefà. Forse perché ti arriva addosso senza preavviso. Forse perché ti è mancato il tempo di un misero lacerante addio che però avrebbe potuto costituire uno spartiacque, sottile quanto si vuole, tra un prima e un dopo. Forse perché il dolore trasfigura e noi, a un certo punto, non sappiamo più chi siamo. “Katla” rimette un po’ a posto le cose. E lo fa disseppellendo il passato perché lo si possa seppellire per un’ultima volta. L’effetto è sorprendente. La serie diventa magnetica e, a dispetto del ritmo lento, scruta dentro le anime in gioco. Molta della immanenza dei luoghi riverbera sui volti pensanti dei protagonisti. Del subbuglio emotivo, più o meno marcato, intenzionalmente non si cura la regia. Gli ingredienti per confezionare il dramma, del resto, ci sono tutti. E l’Islanda non si presta all’esacerbazione dei sentimenti. 

“Katla” beneficia di scelte estetiche ben precise: tipiche inquadrature sono quelle a due. Un primo piano e le spalle, sfocate, dell’interlocutore. Gli esterni, coi campi lunghissimi, amplificano l’autorevolezza della natura. Dentro si è soli, imprigionati nel proprio sentire che quasi mai coincide con il sentire altrui. Il cast, ben assortito, corrobora l’intenzione registica, manifesta, di trovare qualche risposta nelle espressioni dei personaggi e poi smentire un istante dopo.

Lo spettatore comprende i meccanismi della storia, complice una sceneggiatura che gioca spesso di rimessa su un tappeto musicale morigerato, e rinuncia alla comprensione di quell’ignoto contro il quale impattano, uno per volta, i personaggi. Lo spettatore sa che i demoni interiori tracciano fatali destini e parteggia per il deragliamento voluto dall’unica mano incontrollabile: la natura. 

In prossimità dei titoli di coda si torna agli antri infernali del Katla. Nuovi risvegli. Un incedere lento, a schiera, di vita. Che a me, salvo nuove stagioni, piace soltanto immaginare. 

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