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“La stranezza” di Roberto Andò

Tempo di lettura: 4 minuti

Recensione

Non è un biopic, non è una vera e propria commedia e non è un film drammatico. E che non si possa facilmente etichettare è senz’altro un punto a suo favore. Salta però il banco delle attese. Allo spettatore non rimane che consegnarsi alla pellicola di Roberto Andò e lasciarsi trasportare in un altrove inaspettato.

“La stranezza” è del resto il titolo esatto: quello che richiama sì la martellante percezione pirandelliana foriera di fantasmi, ma che pure si presta allo straniamento brechtiano grazie al quale il teatro mette splendidamente a soqquadro la percezione abituale della realtà.

Il caos

Nel quadro che fa da sfondo ai personaggi è dipinta la Sicilia del 1920. Ed è la terra ove regna quel caos di forme e di vita che tanta parte ebbe nei processi creativi di Luigi Pirandello. Quanto scomodo fosse il trambusto che agitava un così sensibile ingegno noi non possiamo saperlo con esattezza. Intuiamo tuttavia, dalle vicissitudini esistenziali e dai riverberi letterari, la complessità della sua mente e lo stato di perenne agitazione cui dovette, più o meno arrendevolmente, piegarsi.

È precisamente lì, in quell’anfratto d’universo personale da cui scaturì uno dei capolavori del drammaturgo di Girgenti, che posa lo sguardo il regista palermitano. Lungi dalla presunzione di darne quel resoconto minuzioso al quale la mente umana per ovvie ragioni si sottrae, Andò sottopone piuttosto alla macchina da presa il caos che in quella mente si intromise, per restituirlo allo spettatore filtrato dagli occhi diligenti e curiosi di Pirandello.

Trarre linfa creativa dalla realtà, benché sia una prassi comune e assodata, risulta quindi in questa pellicola l’intento – consapevole o meno poco importa – dello scrittore nel breve lasso di tempo in cui soggiorna nella terra natia per organizzare il funerale della balia Maria Stella (Aurora Quattrocchi). E a questo intento si votano magicamente i luoghi, le cose, le persone che mette in scena Andò, per Pirandello in primis, ma pure per noi, dentro quel tempo sospeso al quale si aggrappano in egual maniera il cinema e il teatro quando cercano ispirazione.

L’affresco antropomorfico di Andò

Toni Servillo restituisce il composito mondo emotivo dello scrittore attraverso una recitazione misurata, controllata, in una parola esatta. Attorno alla sua regale figura ruotano i veri protagonisti dell’affresco antropomorfico di Andò che molto richiama la tradizione cinematografica italiana: anzitutto i becchini Sebastiano Vella e Onofrio Principato, rispettivamente Ficarra e Picone, ai quali si deve in particolare quella leggerezza che aleggia sulla pellicola e costituisce il valore aggiunto dell’interessante impianto narrativo cui hanno concorso, insieme a Robertò Andò, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso.

Sfilano, inoltre, i personaggi peculiari della Sicilia di quegli anni. Il teatro è per loro, spettatori o attori improvvisati che siano, la boccata d’ossigeno nel clima asfittico del primo dopoguerra.

Il cast che ne traspone i fervori, che ne rimarca le esuberanze, possiede le fattezze e la potenza del Sud nelle foto di famiglia in bianco e nero, sbiadite. E sono Tuccio Musumeci, Luigi Lo Cascio, Filippo Luna, Laura Giordani, Donatella Finocchiaro, Fausto Russo Alesi, il pugliese Renato Carpentieri. Alla caratura stilistica della pellicola – che non sorprende chi ha ben presente la filmografia di Andò – si somma pertanto la destrezza degli attori tutti, dei comprimari come delle comparse. L’affresco di quel mondo, al quale concorrono scene e costumi assolutamente adeguati, non sarebbe risultato tanto attendibile se il cast non fosse stato il frutto di scelte così attente.

Finzione e realtà

“La stranezza” punta la realtà dentro alla quale si agitano, si incastrano, si accavallano, si azzuffano le vite e prova a confonderla col teatro. Quando, calcando le tavole del palcoscenico, si denuncia la speculazione sulle tombe al camposanto, quando fanno capolino i sentimenti, quando Sebastiano e Onofrio si accapigliano, quando non si rispettano le pause, quando la tragedia è impossibile e soggiace alla ben più assaporata commedia, salvo poi virare in tragedia sul finale decretato dalla realtà, allora non sai più dove finisce il teatro e comincia la vita.

Il mondo, oltre quelle mura, non esiste più. Il mondo fuori è troppo lontano. Ed è dentro che paradossalmente si custodisce lo spazio illimitato del sogno, quello cui volge lo sguardo dal palco Luigi Pirandello, sorridendo benevolmente e compostamente innanzi al teatro che si fa da sé, che mescola realtà e finzione, che nei “Sei personaggi in cerca d’autore” di lì a poco smantella i ruoli canonici e confonde pubblico, attori, trame. E poco conta se poi piovono fischi. Il nuovo è da sempre il pasto più difficile da digerire. 

Quella ricalcata dalla mano ferma e al contempo devota di Andò è di fatto una pagina di storia del teatro e, come tale, va decifrata con gli strumenti che il tempo ci ha consegnato. Ché se Sebastiano e Onofrio sono passati senza lasciare traccia, il teatro pirandelliano è rimasto e tutto contiene e in ogni intercapedine di quel tutto che è caos ci sono anche loro: i due becchini che tentavano di mettere in scena la loro tragedia.

Un’umanità da ritrarre

Ai classici della letteratura, ai capolavori del teatro, più in generale all’arte che rimane mentre tutto va via, concorre senza alcun dubbio la vita, concorrono le vite. A “La stranezza” va il merito di avercelo rammentato, nobilitando la gente comune, lasciando farneticare i fantasmi, mai disciplinando quel caos da cui discendono le visioni, i sogni.

E che Robertò Andò abbia cara la lezione di quei maestri che dell’umanità consegnarono al mondo il ritratto più autentico, oltreché mesto, lo conferma la dedica del film a Leonardo Sciascia.

Non basta, insomma, la fantasia. Non basta l’ingegno. Occorre vivere.

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