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Davide Enia - Foto di Tony Gentile

Teatro

Palermo, gli esami di maturità, la mafia, e le bombe del ‘92 nell’Autoritratto di Davide Enia

Tempo di lettura: 4 minuti

«Io non ho nessun ricordo del 23 maggio 1992. Non ricordo dove fossi, con chi, quando e dove ho appreso la notizia della bomba in autostrada che ha ucciso il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e alcuni agenti della scorta. I miei parenti, i miei amici, i miei compagni, tutte le persone che conosco hanno un chiaro ricordo di quel giorno. Io ho un vuoto che non si riempie» racconta Davide Enia nelle note di regia del suo Autoritratto: una co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Spoleto Festival dei Due Mondi, con il patrocinio della Fondazione Falcone. Un monologo, accompagnato dalle musiche originali di Giulio Barocchieri, che si fa carico di raccontare una generazione intera, quella della figlia delle bombe a Palermo nel 1992, e che andrà in scena al Festival di Spoleto in prima assoluta dal 29 giugno al 7 luglio.

Perché definisce lo spettacolo un “autoritratto”?

Ci sono due impulsi alla base di questa scelta. Il primo è dovuto a un libro di una grande teorica femminista e critica d’arte, Carla Lonzi, che si chiama proprio ‘Autoritratto’. Una raccolta di interviste fatte ad alcuni artiste e artisti, una serie di autoritratti. Ma l’idea che si sviluppa in quel testo è che ogni operazione critica, ogni studio, è in realtà un autoritratto del critico stesso. Perché l’operazione di critica viene filtrata con le proprie lenti di lettura, è espressione di un proprio vissuto, e viene poi raccontata a sé stessi. Quindi cos’è il racconto di un rapporto nevrotico con Cosa Nostra, se non un autoritratto? Il secondo impulso è dovuto a un racconto di Borges, che parla di un pittore che vuole dipingere il mondo, che riempie lo spazio vuoto delle tele disegnando la realtà che lo circonda: animali, paesaggi, ritratti di persone. E si rende conto che la somma di tutto questo costituite proprio il suo autoritratto. E in questo spettacolo cos’è che viene rappresentato? Sicuramente c’è il mio rapporto con Cosa Nostra, ma c’è anche quello dei miei compagni, della mia generazione, delle strutture familiari, della struttura di linguaggio e della città di Palermo.

Lei ha definito questo spettacolo una sorta di autoanalisi. Cosa n’è uscito fuori?

Scrivendo lo spettacolo mi sono reso conto di quanto questa storia, così intima nel mio raccontarla, in realtà appartenga a tante persone. E questa è la forza del teatro: una costruzione misteriosa di comunanza, in cui il fiato, la tensione, il respiro diventano un unico tra il palcoscenico e la platea. Una dimensione di trasporto collettivo che rientra nella visione di ritualità del teatro, e che trova la sua massima espressione proprio quando si apre agli altri.

Come ha ampliato poi il suo racconto?

Ho svolto ricerche, ho raccolto testimonianze e poi ho allargato la sfera del lavoro, parlando anche con persone che hanno dedicato il loro lavoro e la loro vita a combattere Cosa Nostra. Sono degli ex dirigenti della DIA, la Direzione Investigativa Antimafia, che mi hanno raccontato alcune cose esemplari. Nel momento in cui passi le tue giornate a cercare di capire Cosa Nostra, fatalmente accogli quel modo di pensare dentro di te, per anticiparlo. Il punto terribile è che il grado di separazione tra noi e Cosa Nostra è zero. Il rapporto di nevrosi che un’intera città ha avuto con Cosa Nostra lo si vede in quanto la mafia sia stata banalizzata, sottostimata, rimossa o mitizzata. Ma mai affrontata per quello che è, ovvero lo specchio che riflette, seppure con la differenza che sfocia in una violenza concreta, le stesse dinamiche che costituiscono le famiglie.

Si tratta quindi di una responsabilità, di una colpa condivisa?

Non di una colpa. Bisogna liberarsi da questo concetto. Il nostro ambito culturale è quello in cui «a megghiu parola è chidda ca ‘un si dice» (la miglior parola è quella che non si dice), che va a braccetto con l’omertà. È un contesto in cui le frasi non si finiscono, dove si aveva una grande difficoltà a nominare anche il desiderio. In questa assenza di parola esplode il fenomeno mafioso, nel quale siamo tutti coinvolti, perché è una realtà di strutture linguistiche che si basano sul non detto e che abbiamo tramandato. Per questo è necessario nominare le cose, è necessario terminare quelle frasi. Significa provare a scardinare questa architettura, assumendosi fino allo stremo la responsabilità di dire le cose come stanno. Anche per questo dico che è come un’autoanalisi. La cosa interessante della terapia è il fatto che nominare le cose fa prendere coscienza del fatto che queste esistono per davvero. La nominazione è solo un modo di far emergere il sommerso, attraverso la consapevolizzazione.

Come si passa dalla parola come strumento di consapevolezza alla parola come arma?

Lo si capisce ascoltando le indagini e i processi per mafia. In quei contesti ci si accorge che non c’è un vero interesse da parte degli avvocati nel capire cosa sta succedendo in quel momento. Gli unici che stanno davvero cambiando in quel momento sono le persone che hanno iniziato a collaborare, proprio perché hanno iniziato a parlare. Grazie a loro troviamo finalmente uno spiraglio che ci permette di entrare all’interno di Cosa nostra, di vederla, di comprenderla, e quindi contrastarla.

Qual è stato il momento in cui si è acquisita la consapevolezza che qualcosa era cambiato?

Il 1992 è stato il vero spartiacque, perché sono arrivate le bombe. E quelle non le puoi nascondere, non le puoi negare. L’omicidio è un fatto che può crearti l’illusione che non ti riguardi, che non ti appartenga. Ma la bomba appartiene a tutti, proprio a causa della capacità di penetrazione che ha nella coscienza collettiva. Si tratta di un punto di non ritorno. E noi ne abbiamo avute due in meno di due mesi. 

Tu e i tuoi compagni come avete vissuto quell’estate?

Da quell’estate è nata una generazione, quella dei figli delle bombe, che in qualche modo ha scoperto di essere unita. Quell’anno non abbiamo solo scoperto Cosa Nostra, abbiamo scoperto anche che Palermo era bella, abbiamo scoperto il centro storico della nostra città, ma l’imprinting sono state le bombe.
Da quell’estate è emersa una prima persona plurale della mia generazione. Quando dico che padre Puglisi era il nostro maestro, è perché non era solamente il mio professore di religione, ma era il docente di quasi tutte le sezioni del Vittorio Emanuele.
Paolo Borsellino non era solamente il vicino di casa di mia madre, ma era il nostro vicino. Perché era anche il vicino del palazzo alle spalle di casa sua, o il dirimpettaio del palazzo di fianco. E come lui anche Giovanni Falcone, e tante altre figure.
Questo grado minimo di separazione con Cosa nostra fa sì che questi contrasti che io racconto in prima persona nel mio spettacolo in realtà siano moltiplicati e siano capillari.

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