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GIUSI ARIMATEA CI PARLA DI “THE FRENCH DISPATCH” DI WES ANDERSON

Tempo di lettura: 4 minuti

Un incantevole esercizio di stile l’ultima fatica di Wes Anderson. “The French Dispatch”, dall’11 novembre nelle sale italiane, è un caleidoscopio di immagini dalle forme e dai colori studiati e in grado di valicare i confini cinematografici e approdare ora nell’universo della pittura ora in quello del fumetto, attraversando così tanti registri formali da rendere titanica l’impresa d’una analisi d’insieme. Ché delle pellicole di Anderson andrebbero esaminati i singoli fotogrammi, molti dei quali peraltro da incorniciare. 

E no, non è soltanto un omaggio al giornalismo vecchia maniera. “The French Dispatch” è essenzialmente una dichiarazione d’amore al cinema che non smette più di bussare alla tua porta e, una volta entrato, si accomoda da qualche parte, come fosse un prezioso oggetto di design da collezione.

Si ha come l’impressione che Anderson, da buon accumulatore seriale, faccia seriamente fatica a lasciar andare il passato. Allora lo sparge dappertutto, apparentemente alla rinfusa, in verità con estrema devozione e una maniacale cura dei particolari che costituiscono l’insieme tutto attorno.

È un film a episodi, come “L’oro di Napoli” di Vittorio De Sica. È un film a colori e in bianco e nero. È un film in 4:3 e in 16:9. È insomma un conturbante mélange di elementi dissimili per acciuffare i quali – singolarmente intendo – non basterebbe guardare il film una decina di volte.  Del resto, a che scopo sbriciolare le gioie per gli occhi? Abbiamo già disintegrato la poesia con la pretesa di analizzarla nemmeno fosse un soggetto nevrotico! 

Gli episodi in “The French Dispatch” scaturiscono da un espediente narrativo: la morte improvvisa di Arthur Howitzer Jr (Bill Murray), il fondatore e direttore dell’omonimo giornale supplemento della rivista americana Liberty, Kansas Evening Sun, redatto nella favolosa Ennui-sur-Blasé, con le sue scalinate, i suoi vicoli, la sua verticalità esacerbata dalle inquadrature. Il teatro di posa perfetto per i quadri che ha in mente il regista texano. Tra i rimandi all’Italia d’un film che sparge Francia senza soluzione di continuità un Ennio Morricone a fianco di Charles Aznavour, Jarvis Cocker, Grace Jones.

Così alla dipartita di Howitzer presto segue il numero di commiato che contiene il necrologio e articoli delle passate edizioni.

C’è il cronista in bicicletta (Owen Wilson) che scova l’arte a ogni angolo di strada, persino nei quartieri malfamati ove, come interviste doppie e impossibili, si accavallano i giorni andati e il post contemporaneo ancora tutto da decifrare.

C’è la storia di un pittore squinternato (Benicio del Toro) rinchiuso in carcere, della sua agente e musa, e dei mercanti d’arte che bramano le sue opere. Moses Rosenthaler affresca la prigione, contiene una rivolta e ottiene la libertà vigilata. L’arte, ancor meglio se astratta, a prevalere sulla vita. O sul desiderio di morte.

C’è il mirabolante reportage della rivolta studentesca e un Sessantotto dipinto coi colori di molto cinema francese, pastello e saturi all’inverosimile come pastello e saturo sa essere il mondo guardato con gli occhi intemperanti della gioventù. 

E, mentre si gioca sulla scacchiera la partita della rivoluzione, Lucinda Krementz (Frances McDormand) accarezza l’integrità giornalistica amoreggiando col giovane Zeffirelli (Timothée Chalamet), leader della rivolta e vittima sacrificale d’un tempo dai grandi orizzonti di speranza.

C’è la storia di droghe, rapimenti e alta cucina raccontata in un’intervista televisiva da Roebuck Wright (Jeffrey Wright). 

C’è, infine, la redazione del French Dispatch, invero parte di un cast stellare che vanta, tra gli altri, Adrien Brody, Tilda Swinton, Saoirse Ronan, Léa Seydoux, Mathieu Amalric, Lyna Khoudri, Elisabeth Moss, Willem Dafoe, Edward Norton, Christoph Waltz¸Guillaume Gallienne, Cécile de France, Jason Schwartzman, Tony Revolori, Rupert Friend, Henry Winkler, Bob Balaban, Hippolyte Girardot, Griffin Dunne. Tocca ai redattori piangere la morte di un Howitzer che, in vita, bandiva le lacrime.

Gli episodi, incollati sul menabò del grande schermo, sono caricature d’un mondo eccentrico e per molti versi naïf che Anderson fissa sulla pellicola con indicibile, ancorché encomiabile, audacia nel maneggiare i propri mezzi espressivi. Alla base un lavoro minuzioso con lo scenografo Adam Stockhausen e il direttore della fotografia statunitense Robert Yeoman

La grafica di quelle stesse copertine che sfilano sui titoli di coda rimanda alla mano dei migliori illustratori cui guarda con occhi sognanti Wes Anderson, mentre predilige il campo totale che poco o nulla indugia nei dettagli, utilizzando la macchina da presa a mo’ di macchina fotografica, tanto gli stanno a cuore le inquadrature piatte che traslocano il cinema in una pinacoteca. 

La sua cifra stilistica è ormai riconoscibile. Le sue atmosfere sono surreali, le storie madide d’una callida, talora malinconica ironia.

“The French Dispatch”, a proposito del quale non si pretende di esaurire in questa sede il discorso, è in definitiva un film capace di riversarti addosso un mondo vastissimo, passando dai colori accesi alle morbidezze del bianco e nero, con l’enfasi della grandeur e la grazia risolutamente carezzevole del minimalismo. Da guardare e guardare ancora.

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