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TRA MATERNITÀ, RADICI DI UNA NAZIONE E L’ESIGENZA DI UNA DEGNA SEPOLTURA DEL PASSATO. LA RECENSIONE DI “MADRES PARALELAS”

Tempo di lettura: 4 minuti

In concorso a Venezia, “Madres paralelas” di Pedro Almodóvar ha aperto la 78esima edizione della Mostra e il 28 ottobre è uscito nelle sale cinematografiche italiane. Pochi giorni appena e già un gran parlare, non fosse altro che per confrontare questo film con quelli precedenti. Come se il processo creativo seguisse necessariamente un percorso lineare o fosse la parabola in ascesa lungo l’asse cartesiano d’una precisa e immutabile cifra stilistica. Il regista spagnolo, 72 anni e una lunga carriera alle spalle, sembra piuttosto intenzionato a esplorare ancora un po’ quell’universo femminile che ben conosce, perscrutandolo da sempre inedite angolature.

Da una parte la maternità, sgombrato il campo da possibili implicazioni sentimentali tra i due genitori. Dall’altra il ruolo imprescindibile delle radici nell’esistenza d’ogni individuo. Tematiche che solo all’apparenza si intersecano, giacché non necessariamente l’esigenza di dare degna sepoltura al passato equivale alla riabilitazione delle figure genitoriali. Le radici cui allude Almodóvar sono quelle d’una Nazione intera, afferiscono a una memoria più specificatamente collettiva e, come tali, valicano i limiti angusti del nucleo familiare propriamente detto. Nel caso di Madres paralelas a reclamare degna sepoltura sono i desaparecidos vittime dei falangisti al tempo della guerra civile spagnola. Il resto, che pure ci cattura con un carico quotidiano di consistenza talora oneroso, è nient’altro che vita. La si affronta come si può, come si sa. Con le variabili del caso, le umane interferenze, le inverosimili trame cui, per meglio derubricarli dal novero delle colpe, si dà il nome di scherzi del destino.

Le due protagoniste del film, Janis e Ana, interpretate rispettivamente dalle inappuntabili Penélope Cruz e Milena Smit, scelgono d’essere madri a dispetto d’un universo maschile che dissente o ignora. La complicità scatta durante il travaglio e sarebbe destinata a perdersi tra i rivoli dell’ordinario, stracarico di incombenze, se il destino non intrecciasse, casualmente e drammaticamente, le altrui vite.

La prima, che deve il nome alla cantante statunitense Janis Joplin, morta per overdose all’età di 27 anni, è sulla soglia dei 40 quando rimane incinta di un uomo sposato. Niente padre. La madre ha ricalcato con estrema precisione il destino della Joplin. Ana supera la soglia della maggiore età dopo il parto. Una violenza subita, l’assenza del padre, la vita della madre consacrata unicamente al teatro. Latitano insomma, per ragioni diverse, le famiglie di entrambe. Mancano all’appello – si scriveva – i padri delle creature appena nate. Fatta salva la magnifica presenza, quanto meno per Janis, di un’amica (Rossy de Palma) e datrice di lavoro, si restringe il mondo attorno alle due donne. Quando irrompe la verità è già tardi. A quarant’anni non si ha evidentemente la forza per trattenerla. Allora la si lascia lì, a sedimentare. A decantare mai. Disincagliarla dalla paura è l’unico, doloroso quanto si vuole, espediente per cavarsela anche fuori dall’utero. Lo sguardo di Janis sulle cose è filtrato dall’obbiettivo della macchina fotografica. Tutto può assumere allora proporzioni accettabili, può essere eventualmente ritoccato. L’esistenza stessa va spesa senza pensarci troppo su. Ché il tiro s’aggiusta. E la verità non ristagna per sempre. A proposito dei set fotografici di Janis, si rileva l’ammirevole omaggio di Almodóvar a Raffaella Carrà durante la posa d’una modella (Daniela Santiago), caschetto biondo e tipico abito della regina della televisione italiana.

Anche quando la verità si trasforma in dolore, e resta appesa a un sentimento confuso e precario, non v’è però ombra di cattiveria. Si ha come l’impressione che Almodóvar ascriva a un passato lontanissimo tutta quanta la ferocia di cui l’uomo è capace e, dentro i ranghi del determinismo meccanicistico, deresponsabilizzi gli individui. O meglio, li sbarazzi dalla reità. L’unico individuo di sesso maschile, l’antropologo forense Arturo (Israel Elejalde) che scava nel sito della fossa comune ove potrebbe essere stato seppellito il bisnonno di Janis, è comunque provvisto di bontà, sa dispensare amore.

Il rapporto tra le due madri si gioca prevalentemente negli spazi confortevoli della casa di Janis. Dialoghi e movimenti dentro quel perimetro conferiscono alla pellicola un’aura intrigante di teatralità. Il dolore tuttavia assume proporzioni notevoli, ma rimane composto. È come se il passato tramandato, col suo carico di traumi collettivi, mitigasse le asperità del presente. Janis ne trasferisce un pezzettino ad Ana, giovane ma non per questo meno segnata dalla vita. Scorrono gli anni, vita e morte si avvicendano, le uscite di scena non sanno essere mai definitive. Chi passa, chi si è fermato anche solo per un po’ fa parte di noi. Le anime di Almodóvar non covano rancore, sdrammatizzano, si riposizionano, guardano temerariamente avanti. Anche se c’è una fossa comune da riaprire e uomini ancora da seppellire.

Sono anime imperfette, madri imperfette, figlie a loro volta di altrettanto imperfette madri. E sulla loro imperfezione il maestro del cinema spagnolo imbastisce la trama nient’affatto lineare di una vicenda sì kafkiana, ma grondante di umanità.

Sul finale, lo sguardo della piccola Cecilia rivolto a quei resti che prendono miracolosamente vita stabilisce una connessione tra chi è già andato via e chi invece rimane. Un legame non necessariamente biologico, ma distintamente storico-sociale: le coup de maître di Almodóvar, che intercetta l’esatto momento in cui il privato diventa politico e sfilaccia, una a una, le imbarazzanti inezie del vivere quotidiano.

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