Il neo Presidente Fulvio Macciardi si racconta a NdS
LDL: Presidente Macciardi, Lei è stato da poco eletto Presidente di una Associazione che ha un grande ruolo per il mondo della cultura come Anfols. Raccoglie un’eredità molto importante quale quella del Presidente Giambrone. In che modo intende riallacciarsi a quella esperienza e come si propone di caratterizzare la sua presidenza?
FM: Insieme al Presidente Giambrone abbiamo fatto dei passaggi molto importanti che hanno definito e connotato meglio il ruolo di Anfols nell’ambito della grande famiglia Agis, visto che inizialmente la nostra associazione era inglobata in Federvivo. Come fondazioni lirico sinfoniche avevamo bisogno di delineare una nostra indipendenza: pur riconoscendo a Federvivo un ruolo molto importante e di grande significato, noi abbiamo un peso economico e un peso anche in termini di rappresentatività che contraddistingue la nostra specificità e unicità.
Anche dal punto di vista dei numeri relativi al personale siamo diversi da altre realtà, e dunque fin dall’inizio del mandato del Presidente Giambrone si è lavorato per avere una propria autonomia. Questo ci ha aiutato nell’intraprendere e affrontare positivamente due percorsi. Alludo al portare a termine, durante un periodo di emergenza, dei piani di risanamento che hanno interessato la maggior parte delle nostre fondazioni e che possiamo dire abbiano avuto esito positivo, perché da alcuni anni tutte le nostre fondazioni – che non erano state esempio di virtuosa gestione negli anni precedenti – oggi chiudono con pareggi di bilancio e sono caratterizzate da una attenta gestione. Occorre inoltre riconoscere il merito dei sovrintendenti che hanno lavorato affinché si rafforzasse l’azione condivisa e autonoma di Anfols.
L’altro aspetto riguarda la grande battaglia comune a tutto il mondo dello spettacolo degli ultimi tre anni: affrontare l’assoluta imprevedibilità causata dalla pandemia. Ecco: credo che i valori dell’associazione, orientati alla solidarietà e alla condivisione delle scelte – ma anche l’aver fatto dell’associazione luogo di incontro, di confronto, di discussione, di analisi abbiano aiutato molto in un momento così complicato, rendendoci un soggetto di riferimento per tutto il mondo dello spettacolo.
Siamo 12 fondazioni lirico sinfoniche oggettivamente molto diverse tra loro per bacini di utenza, budget, risorse economiche: questa pluralità ci ha dato uno sguardo ampio e prospettico per affrontare le questioni che si sono poste. Questo è importante.
Riguardo all’inizio di questo nuovo mandato, va considerato che si potrebbe prevedere anche una riforma legislativa dello spettacolo dal vivo, il cui percorso è iniziato già con gli ultimi atti della precedente legislatura. Anche se vi era stato un consenso condiviso tra tutti i partiti, occorre capire come intenderà procedere il nuovo governo. Questo è un aspetto su cui mi sento di poter dire che ci sarà da parte nostra un impegno importante.
Un tema, sul quale ci siamo trovati tutti in accordo all’interno della nostra associazione, è che il modello delle fondazioni lirico sinfoniche sia molto datato. Parliamo di un modello che nasce quasi 50 anni fa, e che dunque richiede che vi siano degli adattamenti, anche in virtù dei cambiamenti occorsi nelle tecnologie, nelle modalità di fruizione ecc.
E poi c’è un tema che consideriamo centrale rispetto agli obiettivi dell’associazione: vale a dire la certezza delle risorse almeno per ambiti triennali. Si tratta di un aspetto fondamentale che negli ultimi anni si è sviluppato abbastanza positivamente, ma che non può considerarsi acquisito.
Nell’ultimo triennio c’è stato un congelamento delle risorse dovuto alla pandemia e all’emergenza sanitaria; adesso, riprendendo un percorso ordinario, i temi sono di tipo normativo e legislativo, ma anche di prospettiva: ritengo che associazioni come la nostra abbiano all’interno dei loro organismi fondanti le caratteristiche per essere di stimolo al legislatore, ad esempio per pensare a modelli nuovi che tengano conto dell’evolversi delle tecnologie, delle modalità di fruizione, dello sviluppo del turismo culturale, con una particolare attenzione anche al welfare aziendale, un tema centrale per chi opera nell’ambito della cultura e dello spettacolo.
C’è poi il tema a me molto caro, così come caro e centrale è per l’intera associazione, che è quello della formazione musicale in Italia. Su questo aspetto ho una visione piuttosto critica, che ho più volte manifestato: ad esempio rispetto alla riforma dei conservatori, assurti a organismi universitari, che è a mio avviso carente nella parte della formazione pre-universitaria. Tant’è vero che si stanno sviluppando altre istituzioni, come ad esempio Fiesole e l’Accademia di Imola, che vanno a supplire questi aspetti. Molti teatri, tra cui quello del quale sono sovrintendente e direttore artistico, hanno delle accademie di formazione. Ma sono tutte iniziative isolate, che non sono strutturate all’interno di una visione complessiva. Anche il fatto che le istituzioni interessate facciano capo a diversi Ministeri lascia intendere questo.
Il mondo della musica, soprattutto in un paese come l’Italia, non può non avere legami con la formazione. A questo proposito, dico per inciso che con la sovrintendente Cecilia Gasdia e col sovrintendente Marco Betta stiamo portando avanti un progetto per un concorso sia di composizione che di esecuzione. Questo può essere uno degli strumenti utili per ripensare in qualche modo i nostri modelli: d’altro canto al nostro interno disponiamo di competenze specifiche che sono proprie delle nostre strutture e che non è semplice trovare al di fuori: ciò ci rende oggettivamente istituzioni molto differenti da qualsiasi altre.
Abbiamo una grande tradizione e io auspico – altra cosa sulla quale mi piacerebbe molto lavorare –che riusciremo a fare molto più sistema, almeno negli ambiti regionali. Dobbiamo uscire dai numeri piccoli della nazione piccola per aprirci al mondo: se ci si confronta con le realtà e i numeri presenti in altri continenti ci rendiamo conto di operare su dimensioni molto differenti. Se vogliamo creare interesse e avere visibilità per attrarre sponsor e investimenti dobbiamo raggiungere e disporre di bacini molto diversi.
LDL: Si evince da questa articolata risposta quella che è la Sua formazione, professionale e non solo. Lei è da poco alla guida in qualità di presidente di Anfols, ma da tempo dirige come sovrintendente e direttore artistico un teatro importante come il Comunale di Bologna. Ha inoltre una formazione di stampo musicale e un passato da musicista. Da questo punto di vista in Lei convive una duplice prospettiva, da sovrintendente ma anche da musicista. Ritrovo questo sguardo pluri prospettico anche nel suo modo di interpretare la presidenza di Anfols: nelle sue parole emerge una visione d’insieme, di squadra, che si potrebbe ricondurre al suo passato di musicista: se mi concede la banalità, la definirei una visione “orchestrale”. In tal senso le vorrei chiedere se la mia lettura possa essere corretta, e cosa porta della sua esperienza di musicista e di sovrintendente nella presidenza di Anfols.
FM: Le origini ce la portiamo dietro tutte. Cerco di essere sempre molto attento all’uso delle parole: “managerialità” è un termine che apprezzo molto. Credo di essere diventato un discreto manager, partendo però da premesse molto differenti. In questo senso io non ho quel tipo di approccio basato su una “visione di punta” per cui prima fisso l’obiettivo e poi lavoro per conseguirlo: il mio lavoro è dal basso, fondato sulla costruzione fino a raggiungere un certo livello.
Il nostro lavoro ci mette nella condizione di privilegio di essere in dialogo continuo con artisti e personalità di grande spessore, in cui ritrovo aspetti che cerco di fare miei: qualità, attenzione al risultato, e la consapevolezza che il nostro lavoro è valido soltanto nel momento in cui è percepito come tale dagli altri, siano essi il pubblico, il ministero o la corte dei conti.
Come direttore artistico vorrei poter realizzare molto di più di quello che faccio, ma da sovrintendente ho anche un’altra prospettiva: so che ci sono delle scelte da compiere secondo criteri che hanno a che fare con l’interesse dell’azienda: bilancio, posizionamento, crescita, ecc. Questo fa parte della mia storia personale. Credo che soprattutto durante la fase pandemica siamo riusciti a testimoniare il piacere di stare insieme, di condividere, di motivare.
Da utente riconosco che per essere fruitori occorre uno sforzo e pertanto sia necessario essere gratificati. È questo un aspetto importante nel suo complesso, che va debitamente considerato. Anche per questo sostengo che bisognerebbe rinnovare un po’ il modello del teatro: in Italia noi facciamo tipicamente dell’evento performativo la sola motivazione per andare a teatro. La mitteleuropa, a cui guardo con attenzione, invece ha un momento fatto di un prima, di un durante e di un dopo lo spettacolo in sé che conferisce all’esperienza una dimensione complessiva. Questo è un modello di partecipazione, di condivisione e di socialità. È una cosa che si costruisce creando “eventi” che non si esauriscono nella sola performance. Per intenderci, un po’ come capita per gli eventi sportivi: si pensi a quello che ruota negli Stati Uniti attorno ad una partita di baseball o di football. Noi dovremmo creare e gestire eventi di quel tipo. Eventi che portano anche allo sviluppo di altri settori e che hanno altri ritorni: sicuramente sociali, ma anche economici. Creare una dimensione ampia. Questa sarebbe una grande risposta a tutti gli economisti dello spettacolo: per rendere redditizi ed autosufficienti gli spettacoli è necessario superare il concetto di performance come atto unico di un evento, connotandolo invece come il fulcro di qualcosa di più ampio. Per fare questo ci si può avvalere anche delle nuove tecnologie. Noi per esempio in tempo di pandemia abbiamo realizzato insieme alla Rai una ripresa di un’opera cambiando le prospettive della ripresa e predisponendo il palco a tal fine. Si tratta di una ripresa non frontale, ma capace di portare il pubblico a vivere una esperienza simile al protagonista sul palco. Questo permette di “sentire” un’opera come la sente un cantante, essere nella sua prospettiva, vivere l’esperienza del palco, dell’applauso, etc. Immagino che questa sia la strada del teatro del futuro. Non sarà immediato, ma intanto è necessario mettere delle pietre che costruiscano un percorso. Portarsi avanti anticipando quello che è un percorso anche politico. La politica spesso segue, non anticipa. È questo un esempio di come noi invece possiamo anticipare e agevolare la politica nel cambiamento.
LDL: Seguo da tempo con interesse la comunicazione del Teatro Comunale di Bologna. La sua sovrintendenza ha mostrato, direi con lungimiranza, grande attenzione all’immagine e alla riconoscibilità del teatro. In tal senso ho trovato molto riuscita la scelta di affidarsi per la realizzazione dei manifesti a un artista come Riccardo Guasco, che personalmente apprezzo moltissimo, non solo per il valore estetico del suo lavoro, ma anche per la sua capacità di restituire attraverso le immagini il senso profondo di ciò che rappresenta graficamente. Cosa l’ha spinta verso queste scelte estetiche e quale ruolo attribuisce alla comunicazione “iconografica”?
FM: Premetto che io non sono un uomo di comunicazione, ma credo di aver fatto la scelta giusta. Proprio in virtù di questo “minus”, mi sono avvicinato con umiltà alla realtà della comunicazione. Personalmente, il modello che mi è sempre piaciuto è il manifesto della Scala di Milano: al di là della sua intrinseca bellezza, ciò che mi interessa è la sua estrema riconoscibilità.
Negli ultimi anni, anche con l’avvicendarsi di diversi sovrintendenti – dal 2000 prima di me nessuno era stato riconfermato -, il teatro Comunale di Bologna aveva vissuto una sorta di crisi di identità, soprattutto nella sua rappresentazione “iconografica”, ad esempio attraverso diversi cambiamenti del logo. Inizialmente abbiamo prima fatto due anni di sperimentazione anche coinvolgendo delle realtà bolognesi di street artist. Mi si è aperto un mondo, anche relativamente alla forza della comunicazione: non piaceva a tutti, ma tutti ne parlavano. Quando mi sono imbattuto nei lavori di Guasco ho capito che fosse lui la persona giusta. È un artista attento al tratto e al significato. Anche quest’anno continueremo con lui perché ha dato identità e riconoscibilità al nostro teatro. Ma i suoi manifesti, oltre ad essere molto belli, evidenziano anche una lettura molto attenta: non sono casuali, sono significativi e caratterizzanti. In più sono convinto che un teatro prestigioso e di alto livello artistico, ma anche di scarsa disponibilità economica come il nostro, abbia assoluto bisogno di connotarsi e identificarsi.
Personalmente volevo identificare la mia nuova sovrintendenza con un immaginario legato a un periodo non troppo valorizzato in Italia, che è il tardo Ottocento/primo decennio del Novecento dove abbiamo a mio avviso qualcosa da dire, sia rispetto alla storia della città sia rispetto a un certo tipo di repertorio primonovecentesco: in questo senso il tratto di Guasco si riallaccia a quell’immaginario per certi aspetti preindustriale. Anche lo spazio fisico intorno al teatro è stato coinvolto: il portico intorno al teatro è ricoperto da manifesti e gigantografie: questo è arrivato, è stato recepito dalla città.
Il ruolo del teatro comunale di Bologna rispetto a Bologna è a mio avviso stato straordinariamente sottostimato. Adesso il comune partecipa con milioni di euro per ristrutturare il teatro, torna a credere nel ruolo del teatro, ci investe come luogo da cui ripartire anche in termini di socializzazione nella città.
LDL: Al di la della questione meramente estetica mi pare di cogliere una volontà di risemantizzare spazi del teatro, ma anche della città di bologna: la stagione 2023 sarà dislocata in molteplici sedi, visto che il teatro – che ricordiamo è anche beneficiario di fondi del PNRR per l’efficientamento energetico –riaprirà nel 2026, essendo oggetto di lavori di restauro.
FM: Quello di Bologna forse era l’ultimo teatro a non essere ancora stato oggetto di una importante ristrutturazione: l’ultima, estremamente parziale, era stata nel 1980, mentre per trovare una vera importante ristrutturazione bisogna risalire al 1933.
Il nostro è un teatro di estremo fascino, anche per gli addetti ai lavori: si pensi che la movimentazione della macchina scenica è ancora a mano. Questo è estremamente affascinante, ma anche molto impegnativo. Ad esempio, utilizziamo spesso scenografie non costruite per noi, e dunque ci scontriamo con modalità che presumono il ricorso a strumentazioni di tipo elettrico, per cui nella ristrutturazione meccanizzeremo alcune cose.
Personalmente credo che, insieme al San Carlo di Napoli, quello di Bologna sia uno dei teatri più belli d’Italia. C’è quindi l’orgoglio e la volontà di mantenere il teatro nella sua struttura originaria. Ci tengo a sottolineare come grazie a sponsor “illuminati” ci saranno anche molti interventi che non saranno a carico delle istituzioni pubbliche. Preservare e ammodernare, anche in termini di efficientamento energetico, è il nostro obiettivo. Ma anche dare al teatro una centralità nei termini di spazio di socializzazione cittadina, promuovendo l’identificazione di Bologna con il suo teatro.