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Come internet e i big data stanno cambiando la musica

Come le piattaforme di streaming, il digitale e i big data stanno cambiando il modo di produrre e di ascoltare la musica. L’intervista a Francesco Marino, giornalista, digital strategist e curatore della rubrica “Pillole di Futuro Presente”.

Tempo di lettura: 3 minuti

La quarta rivoluzione industriale – quella dell’Internet delle Cose (IoT) e dell’Intelligenza artificiale (AI), per intenderci – ha cambiato in maniera profonda il nostro modo di relazionarci con la musica. Le piattaforme di streaming, il digitale e i dati che compongono questi nuovi ambienti stanno cambiando la musica, modificando le logiche che stanno dietro non solo alla creazione, ma anche all’ascolto della musica.

A quali dati ci riferiamo e in che modo essi contribuiscono a ridefinire le pratiche e le tendenze dell’industria musicale su più ampia scala ce lo spiega Francesco Marino, giornalista e digital strategist, curatore della rubrica “Pillole di Futuro Presente”.

Parliamo di musica e dati: davvero le piattaforme e gli algoritmi hanno cambiato il modo di fare musica?

Buona parte del cambiamento che riguarda la cultura popolare e tutto ciò che è intrattenimento nasce da questa parola chiave: i dati.

Fino a ieri, le informazioni a disposizione che stabilivano o no il successo di una canzone o di un disco era determinato principalmente dalle vendite. Con la diffusione delle piattaforme, oltre alla disponibilità immediata di accessibilità e di fruibilità per tutti, cambiano anche le possibilità di misurazione e di elaborazione dei dati.

In che modo?

Chi si occupa di musica adesso sa perfettamente cosa hai ascoltato, per quanto, in che fascia oraria della giornata e quante volte. Ci sono una serie di dati connessi alla fruizione di musica che sono enormemente maggiori rispetto a prima. Ovviamente chi produce cultura e intrattenimento deve provare a massimizzare le vendite, sfruttando e rielaborando questi dati.

Oggi vediamo in maniera più netta l’impatto di questi cambiamenti; un esempio è che le canzoni si stanno sempre più accorciando negli ultimi anni, un po’ anche per colpa delle piattaforme di streaming.

Un fenomeno apparentemente innocuo, come l’aumento esponenziale di collaborazioni nelle canzoni, nasconde un processo di trasformazione culturale e di mercato molto più ampio, che ha a che fare proprio con i dati.

Questo fenomeno altro non è che un tentativo di massimizzare i pubblici, ad aumentare il più possibile il numero di persone raggiunte da quella canzone e che si lega ad un’altra tendenza della musica in streaming: la possibilità di far uscire canzoni in maniera slegata dal formato album. Proprio questa “atomizzazione della canzone” ci porta anche al fatto che la musica non viene più ascoltata nel formato album ma nel formato playlist, e quindi in spazi di aggregazione, che possono essere create da un algoritmo o da noi stessi.

Questo poi cambia le caratteristiche del modo in cui si produce la musica: nel momento in cui è possibile slegare il singolo brano dall’album, diventa più semplice e più auspicabile per chi produce musica unire le forze e produrre nuove canzoni in duetto in momenti specifici dell’anno. 

Il vero driver del cambiamento alla base di tutto e da cui poi parte di tutto è la misurazione dei dati, possibile grazie a Internet. La rete si configura, così, come un gigantesco strumento di raccolta dati.

Ma di che tipo di dati parliamo? Come vengono raccolti?

Quando parliamo di dati – in senso più ampio – parliamo di ogni azione che noi compiamo online, che è tracciata, genera un dato e quel dato contribuisce generalmente a costruire un nostro “profilo” personale, che è poi l’oggetto del business delle piattaforme, da Google a Spotify. La somma dei nostri dati genera il nostro profilo come consumatori online, e a partire da questi dati ci vengono offerti pubblicità e suggerimenti personalizzati.

Applicando questo concetto dal lato di chi produce musica e più in generale dal lato dell’industria d’intrattenimento culturale, si hanno informazioni e indicazioni molto più precise su tutti i dati che riguardano quell’artista, i contenuti che produce e soprattutto sull’impatto culturale del suo consumo – a livello micro e a livello aggregato.

Quanto di questo fenomeno è una scelta consapevole e indirizzata da parte dei produttori e delle case discografiche?

Credo che per il momento sia la somma di una serie di scelte singole e consapevoli. Probabilmente un cambiamento culturale c’è già, anche se è ancora presto dire effettivamente quanto questo fenomeno abbia influito sull’intero settore. Non c’è ancora una vera risposta, è un processo e un cambiamento in atto, guidato da logiche perlopiù commerciali. 

Qual è il rischio per l’industria musicale nel continuare in questa direzione?

Questa tendenza alla standardizzazione dell’intrattenimento ha come conseguenza l’effetto di tentare di replicare ciò che funziona, inseguendo la grammatica dei dati. È un processo che esiste da sempre; ciò che cambia è ovviamente la dimensione di questo fenomeno.
L’altra tendenza principale di questo periodo è il richiamo a un “effetto nostalgia”, fortemente correlato a Internet e alla standardizzazione di cui parlavamo prima, e che – secondo alcuni – va a discapito della creatività musicale.

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