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“QUI RIDO IO” DI MARIO MARTONE, L’ANALISI DI GIUSI ARIMATEA

Tempo di lettura: 5 minuti

Soggetto e sceneggiatura di Mario Martone e Ippolita Di Majo, regia di Mario Martone e uno straordinario Toni Servillo nei panni di Eduardo Scarpetta: il capolavoro è servito. 

E – si badi – non era impresa facile addentrarsi nel mondo del teatro napoletano servendosi del medesimo mezzo, il cinema, cui una maschera come quella di Felice Sciosciammocca per anni intese resistere. Ché la settima arte, a guardarla con gli occhi di Scarpetta, strideva allora con le tavole del palcoscenico dalle quali il commediografo partenopeo attingeva a piene mani quel senso di onnipotenza che poi scialacquava nel gaio trambusto della sua esistenza.

“Qui rido io”, uscito nelle sale il 9 settembre e tornato a bocca asciutta da Venezia 78, è senz’altro un gioiello del cinema italiano cui guardare con speranza: la concorrenza è spietata, ma all’Italia film come questo di Martone garantiscono ancora un ruolo di primordine nel panorama cinematografico internazionale. 

Già nei primi fotogrammi l’incantevole affresco dell’universo teatrale di Scarpetta. “Miseria e nobiltà” è un successo, si ride di continuo. Il dietro le quinte spiffera invece l’altra faccia dell’istrione: un maestro severo anche con i figli, ai quali trasferisce un’importante eredità e consegna l’unico luogo ove sentirsi liberi: il palcoscenico, appunto. Al trucco i suoi occhi già brillano, come a pregustare il trionfo. Pulcinella, Petito non esistono più. Rimasti i caratteri farseschi della tradizione, va ora in scena la crisi dei valori della borghesia cittadina. E di questa realtà inedita che, ogni sera, affolla il botteghino Eduardo Scarpetta è capostipite, protagonista, eroe. 

L’interpretazione di Toni Servillo conferma – ammesso ve ne fosse bisogno – il talento dell’attore di Afragola. Le sue pose, lo sguardo, i moti impercettibili del volto che disegnano increspature cariche di senso riproducono il migliore Scarpetta che si potesse mai immaginare. Le risate sguaiate, il disappunto manifesto o camuffato dall’ironia, il compiacimento, la tracotanza, la vanità, finanche la sensualità gli trasudano da ogni poro. Servillo è immenso, sempre. Qui tuttavia, ancor più che altrove, sembra trovare un personaggio confezionato su misura: inzuppato di quella Napoli e quel teatro che sono un po’ anche suoi.

La trama non si snoda sul duplice binario di arte e vita; intreccia piuttosto questi due elementi per tracciare i contorni di un individuo, solo sulla carta in antitesi per modus vivendi al Vate d’Italia, che generosamente si dà a un ragguardevole numero di donne e, in maniera morigerata e talora contraddittoria all’altrettanto numerosa prole generata. Tra gli altri Vincenzo (Eduardo Scarpetta), figlio legittimo sulle spalle del quale pesa il fardello del mestiere ereditato, e i tre noti De Filippo: Titina (Marzia Onorato), Eduardo (Aldo Minei) e Peppino (Salvatore Battista). 

Dalla pellicola di Martone il legame con il padre, per taluni dei quali è un ben più ammissibile zio, risulta alquanto imbrogliato. I maschi in particolare sono strattonati dal desiderio di assomigliargli e da quello, inverso, di prenderne le distanze. Il regista non ci sbatte in faccia le sfumature, però lo spettatore può coglierle nei particolari che, dentro i ranghi del biopic, sagomano una pregiata commedia corale. 

Un pasto domenicale o una festa ove regna l’opulenza, ove insomma la nobiltà pare abbia surclassato la miseria delle origini, costituiscono ghiotte occasioni per la ricostruzione d’un tempo, d’un mondo cui le scene di Giancarlo Muselli e Carlo Rescigno e i costumi di Ursula Patzak aggiungono considerevole attendibilità. La fotografia di Renato Berta punta sulle luci e sui colori sgargianti della Napoli di Scarpetta che si insinua a teatro e nelle case. 

Mario Martone orchestra i passaggi da un ambiente all’altro, quindi da una scena all’altra, in tutti i 132 minuti e a dispetto della vasta materia maneggiata, senza alcuno strappo registico. Ci si muove lungo coordinate spazio-temporali alquanto diversificate allo scorrere della pellicola, eppure si ha come l’impressione di stare sempre dentro i panni di uno solo e in un unico inesauribile istante. Così che la vita, fatta di teatro, donne, figli, case, cose, scorra unicamente davanti agli occhi del protagonista. E dentro egli vi reciti all’infinito.

La si vorrebbe afferrare per lui, qualche volta. Specie quando l’onnipotenza dell’artista non tracima al punto da inondare anche l’uomo. Ma il dramma di Eduardo Scarpetta è proprio la vita che gli passa suo malgrado innanzi. Ché le mode passano, i gusti cambiano e agli alti si alternano i bassi. Senza che nulla si possa fare per evitarlo.

La stessa parodia de “La figlia di Iorio” di Gabriele D’Annunzio (Paolo Pierobon), pubblica beffa di Scarpetta, ricalca l’incedere irregolare dell’esistenza quando si confida troppo sull’usuale e non si riconosce più l’azzardo. L’insuccesso diventa allora il mostro peggiore. E aggirarsi, di notte, per i vicoli di Napoli è un po’ come arrendersi al tempo che passa silenzioso. Un po’ come ritagliarsi quell’orizzonte di solitudine che un’esistenza affollatissima ti ha sempre precluso. Un po’ come tentare di scovare la felicità sconosciuta a un vero istrione: quella senza applausi. 

Il colloquio con Benedetto Croce (Lino Musella) getta i primi segnali della nuova rotta che il mondo suggerisce a Scarpetta. Mentre calano le maschere degli artisti e degli intellettuali che fino a poco tempo prima sedevano alla sua stessa tavola. Mentre la moglie (Maria Nazionale), quella ufficiale, gli chiede un testamento. Mentre qualche figlio va, in un altrove distante. E qualcun altro resta, allestendo il futuro sulla scorta di quell’amore per il teatro che è sopravvissuto ai ceffoni, all’esercizio rigoroso di una paternità mai ufficializzata. Mentre la sala non è più piena e lo spettacolo va in scena in un’aula di tribunale. Laddove il livore, le paure, il fallimento sono abilmente dissimulati e la vittoria della causa, a seguire le risate, rimane appesa all’ennesima recita di un Eduardo Scarpetta in grande spolvero.

Che il teatro – ci si domanda – possa ancora avere la meglio sulla vita?

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