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Festival, Spettacolo

Lo spettacolo come forma di diplomazia culturale. Intervista Fabrizio Grifasi

Tempo di lettura: 4 minuti

Oggi lo spettacolo rappresenta sempre di più una forma di diplomazia culturale tra i diversi paesi. Uno strumento di dialogo che apre nuovi percorsi tra lingue e linguaggi artistici differenti.

È uno degli indirizzi che esplora anche il Romaeuropa Festival: una rassegna multidisciplinare che unisce musica, teatro e danza, ma anche digital e nuove forme di comunicazione e di espressione artistica in oltre due mesi di programmazione.

Ne parla su Notizie di Spettacolo Fabrizio Grifasi, direttore Generale e Artistico della Fondazione Romaeuropa e del REF.

Romaeuropa Festival si presenta come un ponte, un collegamento tra Roma e l’Europa nel nome dello spettacolo e della cultura. Come si costruisce questo dialogo?

Romaeuropa nasce nel 1986 come Associazione degli Amici di Villa Medici, frutto di un’iniziativa italo-francese con l’Accademia di Francia, che si è poi federata con le altre accademie e istituzioni straniere ed europee che si trovano a Roma. Nasce fin dall’inizio con l’idea di lavorare assieme, di mettere sui palcoscenici della città artiste e artisti romani, italiani e internazionali, costruendo uno spazio di dialogo non solo nell’ambito europeo, ma aperto a tutto il mondo.
Il progetto iniziale di Romaeuropa, che poi si è confermato nel corso di 38 anni di attività, è esattamente questo: ergersi come crocevia di scambi culturali con il mondo intero. Nel farlo, si è anche articolata in maniera molto diretta in una struttura giuridica precisa: l’organizzazione del Festival è operata da una Fondazione di diritto italiano. E all’interno del suo consiglio d’amministrazione sono presenti ambasciate e istituti culturali stranieri, oltre ovviamente agli enti locali e al sostegno del Mic. Quindi, anche dal punto di vista della struttura giuridica, Romaeuropa rappresenta un unicum, perché è l’unica istituzione che ha questo tipo di caratteristiche che opera nel mondo culturale. Esiste, quindi, una profonda corrispondenza tra progetto artistico, progetto culturale e istituzione giuridica in Romaeuropa.

In questo senso possiamo parlare di cultura e di spettacolo come elementi di diplomazia culturale?

Proprio così. Nella metà degli anni ’80, quando ancora il concetto di diplomazia culturale ancora non esisteva, l’iniziativa della Fondazione fu proprio uno dei primi esempi di diplomazia culturale. Si tratta di aprire un confronto tra artisti, progetti e produzioni, in cui i diversi paesi possano riconoscersi, parlarsi, capire cosa li unisce e cosa li divide, attraverso uno scambio reciproco e un dialogo culturale.
Questo perché l’Europa rappresenta una pluralità di popoli, ma allo stesso tempo deve tener insieme un background comune, valorizzando e promuovendo le singolarità e le specificità di ciascuno dei paesi dell’Unione.

Dall’estero invece c’è un interesse nei confronti dell’Italia di approfondire quanto possiamo offrire all’estero?

C’è tantissimo interesse nei confronti del nostro paese e in quello che possiamo offrire. In merito a questo, bisogna considerare che un grande impulso in questi ultimi 20 anni alla circolazione degli artisti è stato dato dalle opportunità dell’Unione Europea, dai singoli accordi, ma anche dalla consapevolezza dei singoli operatori, dei vari teatri e festival europei che lavorare assieme è un’opportunità per gli artisti. Significa quindi, in qualche modo, offrire un’opportunità agli artisti di far circuitare le loro produzioni, di costruire assieme le loro produzioni attraverso progetti di coproduzione e significa ovviamente interessarsi all’altro.
Sono convinto che uno degli spazi privilegiati in cui l’interesse per l’altro sia particolarmente significativo sia lo spazio culturale e artistico, perché ci permette di accogliere, scoprire, ragionare e riflettere rispetto a progetti e proposte che arrivano da consuetudini ed esperienze diverse dalle nostre.
Ovviamente se poi allarghiamo il nostro cannocchiale e lo estendiamo al mondo scopriamo che questa dimensione è ancora più esaltata; quindi, la possibilità di poter incontrare artisti – per quanto riguarda Romaeuropa – del contemporaneo che negoziano con le loro tradizioni, con la modernità, e che ci portano a scoprire visioni, anche critiche, della realtà che noi viviamo non può che essere un arricchimento per tutti.

La rassegna mette insieme diverse anime dello spettacolo, dal teatro alla danza, spingendosi fino alle nuove forme linguaggi più contemporanei. Qual è il filo rosso che accomuna tutti questi elementi?

Penso che il tratto distintivo di un progetto sia un rapporto critico con il nostro tempo. La voglia e la capacità di raccontare il mondo nelle sue articolazioni attraverso gli occhi e le pratiche degli artisti e delle artiste. Il che significa accettare che esiste una trasversalità di linguaggi che spesso e volentieri molti progetti sono inclassificabili dal punto di vista tradizionale. Per questo è importante valorizzare e dare spazio l’ambito della multidisciplinarietà, all’interno della quale possono riconoscersi non solo Romaeuropa, ma tante altre realtà italiane che si muovono su queste frontiere. A questo aggiungerei, per esempio, il rapporto con le nuove tecnologie che è molto importante all’interno dei linguaggi della scena e che è destinato a crescere. Il Festival quest’anno ospita una serie di progetti in VR, ed è molto probabile che negli anni prossimi molti progetti in VR o legati in qualche modo all’intelligenza artificiale saranno oggetto di investigazione da parte di alcuni artisti e anche questi esulano un po’ da alcune categorizzazioni.

In che modo questo porta poi a scoprire nuovi pubblici e nuove forme di spettacolo?

Questo permette in qualche modo di allargare la questione della multidisciplinarietà al mondo del pubblico. Linguaggi diversi permettono di parlare e includere pubblici diversi, raggiungendo anche i più giovani.
La Fondazione ha fatto una scelta prima del Covid: quella di aprire una vera e propria sezione pensata interamente per i bambini e le loro famiglie, dedicata al contemporaneo. Uno spazio pensato non solo per portare le creazioni di artisti italiani, che magari a volte non si vedono nei circuiti del cosiddetto “teatro ragazzi”, ma anche per far circuitare tutte quelle produzioni internazionali pensate per il pubblico tra i 6 e i 10 anni, e ci teniamo che questo sia vissuto all’interno di una dimensione familiare. Tutto questo fa parte di un’idea di apertura del festival come spazio di incontro. Un progetto artistico e culturale, che è aperto alla città e che soprattutto racconta il nostro tempo.

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