Si prova a tenere alta la tradizione del cinema di genere. Tralasciati remake e sequel di dubbio gusto, negli ultimi vent’anni hanno riscosso un certo successo le pellicole di impronta giapponese, qualche azzeccata operazione statunitense come il filone torture movie di “Saw” e gli interessanti esperimenti cinematografici del regista e sceneggiatore francese Paul Laugier.
Le nuove leve dell’horror italiano stentato invece a spiccare il volo, schiacciate peraltro da una tradizione che ha dettato le regole del genere in tutto il mondo: Riccardo Freda, Mario Bava, Dario Argento, Lucio Fulci, Joe D’Amato, Pupi Avati, Ruggero Deodato e Umberto Lenzi, per citarne alcuni.
Del resto è tutto un mondo che cambia, è una società in perenne trasformazione a dettare nuove regole. Quel che un tempo costringeva i più impressionabili ad abbandonare le sale cinematografiche nel bel mezzo della proiezione oggi presumibilmente non metterebbe paura a un bambino. Oggi i mostri interiori procurano decisamente più angoscia dei Jason che interrompevano il divertimento di ragazzi spensierati. Oggi, a dirla tutta, la spensieratezza è persino un miraggio.
Le famiglie che un tempo si trovavano al cospetto dei mostri o di entità paranormali erano felici per davvero. E i legami forti diventavano scudi per affrontare il pericolo, per opporre resistenza alle forze soprannaturali che ne minavano la serenità.
Non è dunque un caso che Dave Franco, attore e fratello del James Franco di “Disaster artist”, al suo debutto alla regia con il film horror statunitense “The Rental” (L’affitto), disponibile su Amazon Prime Video dal 10 marzo, abbia scelto di mescolare forze oscure e conflitti interiori a causa dei quali la reciproca devastazione dei protagonisti precorra e per certi versi acceleri l’accanimento del maniaco omicida del sottogenere cosiddetto slasher.
Due coppie, precisamente due fratelli e le rispettive compagne, decidono di trascorrere il fine settimana in una splendida villa sull’Oceano prenotata online. Ad alterare il clima allegro, sparse qua e là, mezze frasi che aprono varchi a sotto testi, equilibri precari, segreti malamente occultati.
Si ha come l’impressione che i personaggi, a dispetto del buonumore ostentato, siano tesi come corde di violino per ragioni che esulano finanche dal sospetto di essere spiati dal locatore, un individuo peraltro razzista e infido: peculiarità cui si ricorre, come da cliché, per depistare. Gli amanti del genere intuiscono rapidamente che a rovinare la vacanza non sarà mai l’indiziato numero uno.
Dave Franco e Joe Swanberg hanno scritto una sceneggiatura interessante. Alison Brie, Dan Stevens, Jeremy Allen White e Sheila Vand, dentro i perimetri della trama, si sono ben districati. Si tratta del resto di un quartetto di attori ben noti al grande pubblico.
Tra droga, alcol, musica, vasca idromassaggio e infedeltà si sono presto trasformati nei perfetti bersagli del maniaco omicida di turno che, intanto, ne immortalava le magagne.
Un’acuta meditazione, a margine, sulle dinamiche comportamentali degli individui e sull’universo digitale che oltrepassa i muri delle case, viola la privacy e sventola le esistenze.
Dalla scoperta delle videocamere sparse per casa alla violenza, certamente di vecchia data, scaricata sul proprietario, il film è un crescendo di tensione misurata. Forse troppo misurata se si considera che l’assassino liquida la pratica con troppa fretta e un’efferatezza quasi compassata. Sono tre omicidi e un incidente a chiudere il sipario sulla vacanza. Il tempo di portar via l’armamentario, togliere la maschera e via verso nuove destinazioni: sequel assicurato.
Intanto a me, e senza nulla togliere al buon lavoro di Dave Franco, è venuta una gran voglia di ritornare a quel venerdì 13 di Camp Crystal Lake che sa tanto di anni Ottanta.