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Festival, Interviste

La linea di senso

Tempo di lettura: 8 minuti

Colloquio con Giacomo Pedini, Direttore Artistico di Mittelfest

Si è chiusa la 32esima edizione di Mittelfest, Lina di Lembo ha incontrato Giacomo Pedini, il direttore artistico del festival.

LDL: Mittelfest manifesta già dal nome un esercizio di ponte tra “mondi”. Quali sono le azioni e le prospettive attraverso cui Mittelfest intende collocarsi in questo momento storico di cambiamento?

GP: Innanzitutto, Mittelfest ha questo nome perché si trova in un’area con una storia particolare e composita. È l’unica regione d’Italia in cui sono presenti 4 lingue. Questi elementi storici e culturali influiscono profondamente. È una regione per certi aspetti “cuscinetto”, perché era il punto di contatto tra tre aree, latina, germanica e slava. Questo vuol dire che rappresenta un passaggio. Qui abbiamo strette e abituali relazioni con la Slovenia, la Croazia, l’Austria, per fare un esempio. Mittelfest è quindi un ponte, e deve continuare ad esserlo: anche in questo si esprime la natura dialettica della civiltà europea.

È un luogo deputato allo scambio per cui continuerà ad esserlo, ma in modo diverso, perché è cambiata la dinamica delle relazioni, è cambiata la dinamica degli artisti, è cambiata la percezione delle distanze tra paesi e culture.

Le vicinanze sono molto più prossime che nel recente passato e lo sono pure le lontananze. Nonostante ciò, le espressioni artistiche e culturali del centro Europa e dell’area balcanica non sono ancora così note nell’area occidentale europea.

Mittelfest, per statuto, vuole promuoverle e diffonderle, e questo proseguirà a fare.

LDL: L’immagine, anche grafica, di un Festival lo connota e ne trasmette l’identità e la visione. Vorrei il tuo parere sull’immagine adottata dal Festival, dal logo alle locandine, e chiederti in che modo l’immagine scelta corrisponda alla poetica di Mittelfest.

GP: Io ragiono spesso per concetti, anche quando penso le immagini. Però cerco di trasmettere quei concetti a chi crea immagini.

Mittelfest ha una sua radice visiva molto forte nata nel 1991, che personalmente rispetto. Il logo iniziale di Montanari disegna due volti, uno che ride e uno che piange. Rappresenta un contrasto. Poi ha dei colori: rosso, verde, blu e bianco. La scelta cromatica e figurale ti presenta un universo. Ci sono due colori primari e due linee di espressione basilare.

Lo studio a cui ci siamo affidati in questi ultimi anni, Studio Quadrato di Udine, ha deciso un anno fa – su nostra richiesta – di ripartire dal logo originario, arricchendolo, così da darci un altro logo, in parte sì rinnovato, ma che ci lasciasse la possibilità di poter tornare al disegno originario in qualsiasi momento. Secondo me è stata una scelta importante, di apertura e dinamismo. Se penso poi alla composizione visiva ideata per il cartellone dello scorso anno e di questo, ci tengo a sottolineare subito che i colori scelti sono gli stessi del logo. Questa è la nostra identità cromatica, e in quanto tale ci rappresenta.

Riguardo a quest’anno avevo un concetto: imprevisti, con una chiara declinazione, spiegata in vari testi di presentazione. L’ho ripresentata allo Studio Quadrato e poi ho detto semplicemente: “adesso fate voi”. Questa è la mia modalità di collaborare con altri artisti. Mi hanno fatto varie proposte, tutte accomunate dalla possibilità di leggere l’immagine da almeno due punti di vista e dall’uso di elementi materici per la creazione.

Dato che viviamo in una civiltà iconograficamente satura, mi piace recuperare la dimensione della composizione materiale, in modo da far cozzare la fisicità degli elementi iniziali con la successiva diffusione che, per prassi produttive attuali, sarà gioco forza digitale.

L’immagine Mittelfest 2022 “Imprevisti”, ad esempio, è l’esito di un lungo lavoro di taglio e assemblaggio di pezzi in carta, poi fotografati: le ombreggiature della carta fotografata sono imprevedibili di per sé e sarebbero impossibili se il lavoro fosse stato condotto soltanto in digitale. C’è una concretezza maggiore, un senso di tangibilità del visivo.

LDL: In questo manifesti una tendenza al confronto col passato molto importante, ma anche qualcosa che rimanda alla formazione iconografica, per così dire, “mista” della nostra generazione, passata dai lavoretti con carta e forbici arrotondate dei tempi dell’asilo all’utilizzo degli strumenti digitali più innovativi ed evoluti.

GP: L’uno non esclude l’altro, possiamo ritagliare la carta e utilizzare il digitale. A volte lo dimentichiamo, ma è importante esserne consapevoli. Giocare con le possibilità ereditate è una sfida avvincente e talvolta sottovalutata.

LDL: Mittelfest si è aperto al pubblico quest’anno con lo spettacolo “La singolarità di Schwarzschild”, di cui hai curato la regia, tratto dal racconto di Benjamin Labatut. Un testo molto affascinante e altrettanto complesso: mi è parsa un’apertura programmatica del Festival.

GP: Lo scopo della rappresentazione di uno spettacolo come “La singolarità di Schwarzschild” è accendere i riflettori sui limiti e le potenzialità delle capacità umane. Un aspetto affascinante della storia della scienza, soprattutto della fisica primonovecentesca, che ruota principalmente attorno a Einstein e alla scuola di Copenaghen, è in qualche misura la progressiva presa di coscienza che “homo faber fortunae suae” è una massima che può valere sino a un certo punto: il mondo eccede l’umano, sia come singolo, sia come collettività. L’umano, molto spesso, è trascinato dal mondo.

A me interessava approfondire questo aspetto, sia nella narrazione generale del Festival, sia nello specifico del racconto scenico. Rispetto allo spettacolo, le difficoltà poste dal testo di partenza, le intenzioni concettuali e le persone coinvolte ponevano numerose incognite, ma ciò che è andato in scena era proprio quello che speravo riuscissimo a realizzare.

Non ho elementi per esprimermi pienamente sulla percezione e sulla ricezione del pubblico, ma ho potuto vedere che tendenzialmente si è riusciti a seguire il racconto, e non era facile. La linea di senso, la vertigine, lo smarrimento – gli aspetti che mi interessavano di più – sono arrivati.

LDL: Posso testimoniare, da spettatrice, che mi è arrivato il senso profondo di quello che volevi trasmettere e che, pertanto, hai colto nel segno. La messa in scena mi ha fatto riflettere sulla forza “demiurgica” della scenografia, ma anche alla direzione di pensiero dello spettacolo data dalla regia. In questo senso, mi sento di ringraziarti per la visione che hai offerto.

GP: Ciò che dici è rilevante. La scenografia in senso forte è la costruzione di uno spazio. La prima volta che ho parlato dello spettacolo con Csaba Antal, lui mi ha detto “dobbiamo far vedere l’universo”. La sua maestria è farlo vedere con un solo oggetto, un cerchio in acciaio che ruota per il palco e su cui Eva Luna Betelli lavora e recita.

Il lavoro che ho fatto io è diverso: esaltare e coniugare ognuna delle componenti dello spettacolo. In questo si esercita la vertigine e la funzione dell’esercizio di visione, che è qualcosa di preciso ma al tempo stesso di sfuggente. Nelle varie attività necessarie alla realizzazione di uno spettacolo, qualcuno ha la funzione di esercitare la visione delle cose, qualcun altro di dare a quella visione corpo e materia. Sia l’esercizio di visione, sia l’esercizio di creazione materiale sono necessari. Come regista ho suggerito una visione, ma ognuno ha messo qualcosa di suo: in ciò risiede il valore delle singole funzioni e la loro complementarità. Questo è valso con Csaba, come con Eva Luna e le sue competenze acrobatiche, con Gianluca Sbicca per i costumi, Francesca Centonze per i video e, soprattutto, Michele Marco Rossi per la scelta di Hindemith.

Cividale del Friuli, 22-07-2022 – MITTELFEST 2022 – IMPREVISTI – Teatro Ristori – La singolarità di Schwarzschild – di Benjamín Labatut traduzione Lisa Topi con Eva Luna Betelli e Michele Marco Rossi (violoncello) regia Giacomo Pedini spazio scenico Csaba Antal costumi Gianluca Sbicca video Francesca Centonze assistente alla regia Francesca Lombardi scena realizzata da Delta Studios costumi realizzati presso il laboratorio di sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa produzione Mittelfest2022 in co-produzione con Compagnia Umberto Orsini, Wrong Child Production con la collaborazione di Associazione Circo all’InCirca Si ringrazia Matteo Barsuglia per i suggerimenti nella ricerca di immagini e video astrofisici – Foto © 2022 Luca d’Agostino / Phocus Agency

LDL: Credo che, in una scala più ampia, questo sia anche ciò che determina il livello qualitativo di un festival: come una performance inserita all’interno del cartellone si ponga in relazione con la visione artistica di cui il Festival si fa espressione. In tal senso, ogni singolo evento che compone il Festival è uno sguardo che riflette una visione più ampia, e questo vale anche nella concezione delle sfere di pertinenza e nel rispetto del contributo di ciascuna individualità e professionalità coinvolta.

GP: Questo è un punto importantissimo per me, che reputo determinante per un sano, soddisfacente e stimolante lavoro delle istituzioni e delle imprese culturali.

Il lavoro prettamente artistico e creativo è un lavoro, che per potersi esprimere al meglio deve vivere accanto a un lavoro gestionale e manageriale, che è un altro lavoro. Questi due lavori, a mio avviso, devono essere svolti da persone diverse, le quali devono lavorare in sinergia e in sintonia.

Se si eccettua il caso delle fondazioni lirico sinfoniche, e non sempre, è una mentalità praticamente assente in Italia, ed è una pecca grave. Le visioni differenti sono stimolanti e fondamentali, spesso anche in virtù di una sana conflittualità.

Io faccio il direttore artistico, e in quell’aggettivo risiede il mio ruolo: occuparmi delle vicende artistiche del festival. Accanto alla mia funzione, ci sono due altre figure fondamentali che dialogano con la parte artistica occupandosi degli aspetti materiali e manageriali: il presidente e il segretario generale. Per cui abbiamo terreni di lavoro complementari e comuni. La visione generale, dall’alto, del Presidente e del Consiglio di amministrazione fornisce il quadro del Festival, il suo indirizzo; la direzione artistica delinea la visione artistica all’interno di quel quadro; la segreteria concretizza la realizzazione del quadro. Gli esiti sono un altro discorso, in quanto non è possibile determinarli aprioristicamente, ma la macchina, così impostata, funziona, e i conflitti che possono verificarsi non sono conflitti di “smarrimento”, sono confronti sani che arricchiscono pluralmente il festival.

LDL: Ogni ruolo corrisponde al pensiero e alla visione di chi lo ricopre. Il tuo, anche nella puntualità e nel pragmatismo dei tuoi rilievi, è un pensiero creativo che si riverbera nel tuo percorso professionale ed esistenziale.  Restando nel campo dei motti latini, “unicuique suum”.

GP: Sono sodale con Machiavelli: è vero che ogni essere umano ha la sua indole, ma tutto dipende dalle condizioni esterne che – restando nelle immagini del Principe – a volte favoriscono la volpe, altre il leone.  Sono persuaso che quello di Machiavelli non sia un invito a non agire o a non adattarsi, ma ad accettare che l’azione umana, pur necessaria, ha dei limiti.

LDL: Si parlava di conflitti, anche dai risvolti positivi. Ampliando il nostro sguardo sul mondo che ci circonda, il conflitto, non solo di tipo militare, appare come la cifra drammatica e diffusa del momento storico che stiamo vivendo. Che contributo può offrire l’arte alla lettura del reale?

GP: C’è un passaggio, durante un’intervista, in cui Thomas Mann dice più o meno: “è impossibile sottrarsi allo Zeitgeist”. Mann si riferiva a quel pamphlet orribile, ripugnante, che lui aveva scritto dopo la fine della Prima Guerra mondiale: “Considerazioni di un impolitico”, un testo violento, retrogrado, animato da un nazionalismo becero. Thomas Mann si era pentito di averlo scritto. Successivamente pubblicò “La montagna incantata”, che è in qualche modo il racconto di tutto quello che aveva generato le “Considerazioni di un impolitico”.

Questa sua osservazione sul non potersi sottrarre allo spirito del tempo, perché siamo di fatto dentro alle cose, è assolutamente vera. È altrettanto vero, però, che possiamo anche tentare di allontanarci dalle cose, di analizzarle criticamente, di opporci.

Oggi attraversiamo una situazione specificatamente inquieta per vari motivi. Innanzitutto, il mondo in cui viviamo è cambiato: l’effetto serra modifica l’assetto del mondo in cui siamo, e la modifica dell’assetto del mondo in cui viviamo impatta sui comportamenti e sulle dinamiche umane, perché siamo dentro il mondo, viviamo sulla Terra, e se la Terra si comporta in un modo, ciò ci influenza. È una banalità, ma è la verità. Una città nel deserto non è come una città sul mare o in montagna: le forme di vita sono organicamente diverse, e questo non si può non considerare, anche nell’uso che facciamo della tecnica.

Altra cosa: dopo secoli di centralità euro-americana, che ha dato forma al mondo in cui viviamo, oggi il mondo è multipolare, i centri si sono moltiplicati e spostati altrove.

E ancora: il nostro continente, che ha dato la forma alle basi della vita di gran parte del mondo, sta affrontando un cambiamento forte e profondo della propria civiltà, a partire dal profilo della popolazione a seguito dei fenomeni migratori e delle nuove prossimità culturali. Questo è un passaggio molto rapido che genera inquietudine, perché modifica un qualcosa di dato.

Sta cambiando la composizione della popolazione, è cambiato l’ambiente in cui viviamo, sono cambiati gli equilibri geo-politici del mondo. Tutto ciò non può che generare inquietudine. Probabilmente, data la modifica delle condizioni, bisogna capire che cosa può nascere, di nuovo e di buono, da tutto questo, e anche come reagire a questi processi, con la consapevolezza che non possono essere completamente dominati.

Non possiamo mettere la testa dentro un buco nero per vedere dove finisce la luce.

Io sono un grande sostenitore del valore e della grandezza della civiltà europea. Cosa vuol dire in concreto? Vuol dire che il valore e la grandezza della civiltà europea viene dall’essere fondata sulla dialettica, cioè dall’avere opinioni divergenti ed essere abituati a confrontarci sulle opinioni divergenti, e anche scontrarci. Dalla dialettica dovremo elaborare nuove risposte, anche artistiche, per un mondo che ha attraversato ormai un processo di cambiamento.

Scritto da

Direttrice editoriale. Musicologa, project manager, consulente editoriale per Istituzioni culturali.

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